adulti ancora a scuola

‘Sta parola po esse fero e po esse piuma: maneggiamola con cura

questo È quello che ha scritto Marco Tortelli per adultiancoraascuola.eu. Il suo discorso riguarda la parola. per gli adulti ancora a scuola È un contributo interessante, poiché è proprio attraverso la parola, il riflettere sul suo uso, il sorprendersi della sua potenza che si è sviluppato il lavoro del “gruppo di Redazione degli AAAS”


«Fatti, non parole» recitava una vecchia pubblicità. Oggi quella ditta che allora commercializzava elettrodomestici non esiste più, ma nell’immaginario collettivo è ancora ben presente la contrapposizione fra chi “discorre” e chi “fa di fatto, con tanto di giudizio negativo nei confronti dei primi e positivo nei confronti dei secondi.
Eppure la parola – o meglio: il sistema della lingua – è uno degli strumenti più potenti in mano all’uomo, anzi: uno strumento impossibile da non utilizzare, a meno di non voler far tutto da soli. Se l’uomo non avesse imparato a comunicare e socializzare, però, probabilmente a questo punto sarebbe già scomparso dalla faccia della terra, visto che madre natura non ci ha regalato tanti mezzi per difenderci e attaccare, a differenza di altri animali fisicamente assai più forti e resistenti di noi.
È stata appunto la possibilità di comunicare e collaborare in maniera più efficiente degli altri animali a farci vincere la sfida dell’evoluzione e, in particolare, la caratteristica dell’uomo di poter trasmettere il suo sapere, anche attraverso il tempo e lo spazio come diremo fra poco.
C’è una bella espressione di origine anglosassone, parecchio diffusa in ambito informatico: “reinventing the wheel” (inventare di nuovo la ruota). SI usa per descrivere la perdita di tempo e la scarsa efficienza di quando ci mettiamo a progettare e realizzare qualcosa senza prima aver fatto tesoro di chi ha già progettato e realizzato con successo la stessa cosa prima di noi.
Ecco, se non abbiamo la necessità di dover reinventare ogni volta la ruota e possiamo invece appoggiarci saldamente su quanto è stato fatto prima di noi da altri più bravi di noi, lo dobbiamo alla capacità di comunicare le nostre conoscenze. E lo strumento principe del nostro comunicare è appunto quello che si chiama il linguaggio naturale umano, cioè “le parole”.
Da qualche secolo con l‘invenzione della stampa, e ancor di più da qualche decennio grazie ad internet, le parole hanno ampiamente superato i confini del tempo e dello spazio: corrono attraverso gli anni e attraverso i continenti per raccontare i successi e gli insuccessi di chi è venuto prima di noi, per dirci cosa sta succedendo in questo stesso momento in un altro angolo del pianeta, per spiegarci come fare a far calcoli complicati o come funziona il mondo dal punto di vista della fisica, oppure semplicemente per insegnarci a scrivere un articolo sul nostro blog.
Le parole sono quindi uno strumento potentissimo e come ogni strumento potentissimo va maneggiato con cura, spendendo un po’ di tempo anche per capire come funziona.
Ovviamente, le teorie su come funziona la comunicazione (linguistica e non solo) sono parecchie e altrettanti sono i modelli creati per rappresentarla. Uno dei più noti è quello elaborato dal linguista Roman Jakobson.
Come nel caso del modello di Shannon e Weaver incontrato nello scorso articolo su questo blog, anche per Jakobson…la comunicazione è un atto che coinvolge essenzialmente

  • un emittente e
  • un destinatario

e il suo scopo è quello di trasmettere

  • un messaggio da emittente a destinatario,
  • in un contesto ben preciso (a seconda del rapporto che lega emittente e destinatario il contesto può essere più o meno formale: può essere un colloquio di lavoro o una chiacchierata fra amici, ad esempio),
  • attraverso un canale (la voce, il telefono, un messaggio su WhatsApp…)
  • secondo le regole di un codice condiviso fra emittente e destinatario (ad esempio la lingua italiana).

Ad ognuno dei sei elementi coinvolti Jakobson associa una diversa funzione, a seconda di quale sia il protagonista principale dell’atto comunicativo:

  • emittente -> funzione emotiva (l’emittente dice qualcosa riguardo a sé stesso)
  • destinatario -> funzione conativa (l’emittente vuole modificare la percezione del destinatario o vuole spingerlo ad agire in un certo modo)
  • messaggio -> funzione poetica (la forma del messaggio è più importante del suo significato, come ad esempio nelle poesie e nei testi letterari in genere)
  • contesto -> funzione referenziale (ad esempio i tanti termini tecnici di tanti discorsi che spesso servono soltanto a sottolineare in quale contesto ci troviamo: burocratico, medico, legale, scolastico…)
  • canale -> funzione fàtica (quando ci si concentra sul canale per essere certi che la comunicazione sia attiva. Ad esempio il “Pronto” che diciamo quando rispondiamo al telefono)
  • codice -> funzione metalinguistica (quando il codice parla di sé stesso: una lezione di grammatica, ad esempio, usa l’italiano per parlare della lingua italiana)

Troppo complicato? Probabilmente sì, ma l’accenno al modello di Jakobson è stato fatto per due motivi:

  1. perché è molto diffuso e quindi val la pena di conoscerlo a grandi linee, nel caso qualche ministro decida di tirarlo fuori in un prossimo discorso insieme ad altri termini astrusi come infosfera o quarta rivoluzione;
  2. per aver presente che un messaggio può avere una funzione diversa a seconda di quale sia l’elemento più in evidenza rispetto agli altri.

Per capirci, è un po’ quello che succede anche con le notizie dei giornali: una stessa notizia può avere una funzione e un effetto diversi a seconda di quale elemento venga messo in evidenza. Al punto che una stessa notizia (cioè il racconto dello stesso fatto) può essere considerata buona o cattiva a seconda di quale aspetto venga sottolineato dal giornalista (l’emittente, nello schema di Jakobson).
Quest’ultima considerazione ci mette di fronte a un’altra distinzione, più semplice dello schema di Jakobson ma non meno importante: quella fra valore denotativo e valore connotativo di una parola (o anche di una frase intera).
Denotazione e connotazione sono due termini che nascono e si sviluppano prima in filosofia, in particolare nel Sistema della logica deduttiva e induttiva di John Stuart Mill, e poi in linguistica.
Visto che qui ci stiamo occupando delle funzioni della lingua e del significato delle parole, ci limiteremo però al punto di vista della linguistica.
Per farla breve, una parola o una frase hanno sempre in sé un valore

  • denotativo -> indica una cosa e la distingue dalle altre, serve cioè a spiegare di cosa di cui si sta parlando
  • connotativo -> porta con sé una serie di significati collegati alla cosa che si sta indicando

Anche in questo caso, a seconda di quale valore prevalga, i significati di una stessa frase possono essere molto diversi.

Prendiamo ad esempio l’espressione malato di cuore

  • Se stiamo parlando di una qualche patologia, prevale il valore denotativo: cuore significa l’organo del nostro corpo identificato dalla parola
  • Se stiamo parlando di un amore non corrisposto, prevale il valore connotativo: ci stiamo riferendo a un significato legato a quella parola dalla nostra cultura e non al cuore come organo

Si noti che i due valori (connotativo e denotativo) non si presentano mai da soli: nel caso del paziente malato di cuore, ad esempio, a seconda di chi sia il paziente avremo una reazione e un coinvolgimento emotivo differente (l’effetto che produce una parola su chi la riceve attiene al campo della connotazione).
Così come nel caso dell’innamorato non corrisposto abbiamo comunque bisogno di specificare (cioè di indicare) che la malattia, seppur metaforica, riguarda il cuore e non la testa: e indicare una cosa per distinguerla da un’altra rientra fra i compiti della denotazione.
Riassumendo, all’interno di una stessa parola o frase ci sono sempre due tipi di informazione:

  • denotazione: indica una cosa distinguendola da tutte le altre (sto parlando di questo e non di altro)
  • connotazione: il bagaglio che la parola porta con sé, compreso il nostro atteggiamento emotivo nei confronti di essa: grugno e visino sono più o meno due sinonimi di volto, ma converrete che non hanno lo stesso effetto…

A seconda delle parole che scegliamo, il nostro discorso cambia di significato e di effetto sul nostro interlocutore (neutro nel caso della denotazione; positivo o negativo nel caso della connotazione). Proprio come abbiamo visto per le due locandine che parlano della stessa notizia: si può mettere l’accento sul fatto che i lavori stanno andando avanti (“ISI Barga avanti tutta”), oppure sui disagi dei ragazzi che non possono fare lezione in aula (“Sei classi nei container”). Entrambe le locandine raccontano lo stesso episodio e nessuna delle due sta dicendo il falso, ma la prima ha un effetto positivo e la seconda un effetto negativo sul lettore.
La constatazione che gli elementi di un discorso (e quindi di una ragionamento) non si presentano mai da soli vale anche per la nostra contrapposizione iniziale: difficilmente ci sarà una persona che sempre fa di fatto e un’altra che sempre fa solo discorsi. Per confezionare un piatto soddisfacente ci vogliono tutti gli ingredienti: ci vogliono i fatti, ci vogliono i discorsi… e ci si augura che prima dei fatti e dei discorsi ci sia anche un minimo di pensiero, possibilmente critico e non precostituito. Poi, alla fine, a fare la differenza fra una ricetta riuscita e una pietanza scadente è comunque l’equilibrio fra i vari ingredienti.
Infine, mi si permetta una riflessione da giornalista: avete notato anche voi che negli ultimi tempi sono assai più diffusi e godono di maggior prestigio gli “opinionisti” rispetto ai “cronisti”? Non soltanto sui social, ma anche nell’informazione professionale è diventato sempre più raro imbattersi nel racconto di un fatto che non nel suo commento, più o meno autorevole. Sono scomparsi i fatti, parafrasando il titolo di un vecchio libro di Marco Travaglio, anche lui comunque più noto al grande pubblico come opinionista che non come cronista.
Per usare la distinzione che abbiamo visto in precedenza, si potrebbe dire che la connotazione ha oggi la prevalenza sulla denotazione.
I motivi sono tanti e non è questo il luogo adatto per approfondire. Per cavarsela in poche righe, potremmo dire che raccontare i fatti costa più tempo e fatica che commentarli: bisogna uscire dalla nostra comodità e possibilmente recarsi sul posto (o perlomeno sentire quante più testimonianze possibili) per raccogliere indizi e documenti al fine di ricostruire la dinamica dell’accaduto. È molto più semplice farsi un’idea sommaria leggiucchiando qua e là qualcosa dalla nostra scrivania, tirare delle conclusioni altrettanto sommarie e poi raccontare al mondo come la pensiamo.
Anche in questo caso, l’obiettivo dovrebbe invece essere quello di cercare un equilibrio fra i vari ingredienti, sforzandosi di distinguere la realtà oggettiva dal punto di vista soggettivo che comunque, inevitabilmente, accompagna qualsiasi descrizione. Ed è giusto che sia così: gli ingredienti sono tutti necessari, ricordate?
DESCRIZIONE OGGETTIVA

  • Fornisce informazioni verificabili e accurate cercando di non omettere niente
  • Non esprime opinioni o impressioni
  • Informa senza influenzare (denota e non connota)

DESCRIZIONE SOGGETTIVA

  • Seleziona le informazioni più utili allo scopo della comunicazione
  • Esprime opinioni o impressioni, a volte non soltanto in prima persona (la terza persona e il “si” impersonale come nella formula “si comunica” mascherano la natura soggettiva della frase)
  • Suscita nel lettore un certo stato d’animo o una certa opinione (connota e non denota)

Come ogni contrapposizione vista finora, anche i due tipi di descrizione non devono essere intesi come uno buono e l’altro cattivo: sono i due poli estremi entro cui muoversi a seconda delle esigenze della comunicazione: uno scrittore si muoverà più dalle parti di descrizione soggettiva (ma non potrà fare a meno di elementi oggettivi e noti a tutti, se non vuole risultare incomprensibile); un giornalista sarà (o almeno dovrebbe essere) più vicino a una descrizione oggettiva.
Alla fine, la morale della favola: per non perdersi nel mare delle parole in cui nuotiamo quotidianamente da emittenti o da destinatari, bisogna tenere la mente, gli occhi e le orecchie aperti per conoscere e riconoscere le varie strategie comunicative, accompagnati sempre dall’umiltà necessaria per capire quando abbiamo sbagliato strada e tornare indietro sui nostri passi: altra merce rara di questi tempi, come il pensiero critico di cui sopra.

P.S. Il titolo dell’articolo è una libera interpretazione della battuta pronunciata da Mario Brega in questa scena del film “Bianco, rosso e Verdone”: https://www.youtube.com/watch?v=UzjeUZ02Tig

Marco Tortelli, grafico e giornalista.

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