2025 Marzo 8 – La libertà non si concede, si conquista ogni giorno.
“E poi chissà quante donne devono anestetizzare i ricordi, per navigare in una normalità che rimane comunque al di qua del guado che non si è ancora realizzato in molte zone della umanità e in tutte le società: il pari diritto di essere padrone di se stesse da parte delle donne e la scomparsa della missione degli uomini di violare la parità di genere.”
“E io sono tra quelle donne che per l’8 marzo ’25 ritualizzano la data per poi rientrare nelle routine che fanno tirar su col naso soltanto pochi minuti dopo essere uscite fuori dal ristorante. E oggi, grazie allo smartphone grande fratello (anche qui maschio: sic!), per non poche di noi neppure quelle tre ore di illusione di solidarietà interna al nostro genere sarà goduta appieno.”
Oggi è molto facile andar per chat, come una volta si chiacchierava sui pianerolotti e sugli usci di casa. E nelle chat, che per lo più sono spontanee e libere, ci puoi ritrovare come si condisce l’insalata e come si sciacquano i panni. Anche se non lo vuoi sapere.
Ne ho incontrate molte di donne che non festeggiano o non hanno festeggiato l’8 Marzo. Mica è obbligatorio!
Molte: “che gli sembra buffo mettersi da sole a festeggiare, quasi si sentono in colpa, quasi pensano di tradire il loro maschio, se ce l’hanno, e poi loro dicono che bisognerebbe che facessero festa assieme uomini e donne che si rispettano a vicenda.”
E quando sento che si mettono in subordine così come qui sopra, prima il maschile e poi il femminile, mi viene da pensare.
Sai: “non è questione di essere attempate o no, non c’entra precisamente essere giovani o anziane, centra l’aver interiorizzato il ruolo che ti hanno dato e che ti tieni, dato per scontato, in cui ci navighi da sempre.”
Mi domando perché faccia paura anche a chi è donna che altre donne da sole festeggino assieme l’8 marzo. O comunque le sentano altre da loro. Negare che ci sia bisogno di una festa per le donne, cioè negare la Festa Internazionale delle Donne, cosa è? Inesperienza? Avere un preconcetto preciso? Che se tu celebri con qualcuno qualcosa, sei separazionista perché non inviti gli altri?
Queste poche frasi, raccattate tra le molte, colgono un fenomeno psicosociale davvero interessante e complesso. E anche AAAS possono rifletterci su.
La paura o il disagio che alcune donne provano di fronte alla celebrazione collettiva dell’8 marzo da parte di altre donne può radicarsi in diversi meccanismi psicologici profondi.
C’è spesso una forte pressione sociale a non escludere gli uomini da qualsiasi contesto. Sono molte le donne che raccontano che la loro madre pendeva o pende ancora per il figlio-o.
Il femminismo o momenti di esclusiva aggregazione femminile vengono frequentemente percepiti come “divisivi” o “ostili”, quando in realtà potrebbero rappresentare semplicemente spazi di sicurezza e di condivisione.
Questa pressione all’inclusività maschilista può essere interiorizzata al punto da generare disagio verso momenti di celebrazione esclusivamente femminile.
Criticare altre donne che scelgono di celebrare può fungere da strategia inconscia per posizionarsi come “alleate” della visione dominante, guadagnando così approvazione sociale e distanziandosi da potenziali critiche. (Il timore del “sororicidio sociale”[1] gioca un ruolo importante, ne studia la psichiatria, ma anche la sociologia).
La paura dell’autonomia collettiva femminile tocca corde profonde: una comunità di donne che si autorappresenta e autodetermina sfida implicitamente l’idea che l’identità e il valore femminile debbano essere mediati o validati dallo sguardo maschile.
Questo può essere destabilizzante anche per quelle che hanno interiorizzato il valore della diversità di genere come libertà e crescita sociale. Queste considerazioni possono illuminar di più se contemporaneamente alle situazioni attuali del nostro occidente (ed ognuna/o per la propria esperienza) le avviciniamo come cartine di torna sole alle società dichiaratamente patriarcali e misogine.
Vedere altre donne che celebrano consapevolmente ad in autonomia può innescare domande scomode sulla propria condizione, sulle discriminazioni subite o sulle opportunità negate, generando un disagio che viene proiettato verso l’esterno, attraverso il meccanismo dell’evitare il confronto.
Infine, la paura della solidarietà femminile come forza trasformativa: in un sistema che prospera sulla competizione tra donne, l’immagine di donne unite in solidarietà rappresenta una minaccia all’ordine sociale esistente. A livello inconscio, questo potenziale di cambiamento può generare ansia anche in chi beneficerebbe proprio del cambiamento stesso!
Queste dinamiche rivelano quanto profondamente le strutture patriarcali possano operare nella psiche collettiva, creando resistenze interne anche verso momenti di celebrazione che potrebbero invece rappresentare opportunità di empowerment e liberazione.
Ma cosa festeggiare? Per cosa brindare?
Qui, in scrivere e raccontare, sottolineiamo come l’8 marzo non sia solo una celebrazione retorica, ma un’occasione per riflettere sui progressi conquistati e sugli obiettivi ancora da raggiungere. Le donne possono brindare ai traguardi raggiunti in istruzione, rappresentanza politica, diritti personali e carriera professionale. Ma il brindisi è soprattutto un impegno verso un futuro di maggiore uguaglianza, dove la libertà non sia un privilegio ma un diritto universale.
Le battaglie per l’autodeterminazione hanno portato a conquiste fondamentali: il diritto al voto, alla contraccezione, all’interruzione volontaria di gravidanza in molti paesi, la possibilità di scegliere liberamente il proprio percorso di vita.
Dove il bicchiere è mezzo pieno, oggi le donne rappresentano oltre il 50% dei laureati in molti paesi, superando ostacoli storici nell’accesso all’istruzione superiore. Un traguardo che apre infinite possibilità di realizzazione personale e professionale. La solidarietà internazionale potrà influire positivamente anche in quei contesti politici nei quali le donne sono sottomesse o sono tornate ad essere sottomesse.
L’aumento delle donne in ruoli decisionali, dai parlamenti nazionali ai consigli di amministrazione, segna un punto di svolta nella rappresentanza democratica. Ogni donna eletta è un simbolo di cambiamento e speranza.
Queste sono parole simili a quelle che direbbe il nostro Presidente della Repubblica.
Un numero crescente di donne avvia imprese di successo, raggiunge posizioni apicali e dimostra competenze straordinarie in ogni campo, dall’innovazione tecnologica alla ricerca scientifica.
Un calice va alzato anche alla forza collettiva. Alla capacità di denunciare molestie e discriminazioni, con movimenti che rompono il silenzio. Alla solidarietà femminile che supera divisioni generazionali, culturali e sociali. Alla creatività con cui le donne reinventano ruoli e aspettative sociali.
Il brindisi non è solo celebrazione, ma impegno per un mondo dove la parità non sia un’eccezione, ma la norma. Dove ogni donna possa scegliere liberamente il proprio destino. Dove differenza di genere non significhi disuguaglianza.
La libertà e la emancipazione non nascono, ci si guadagnano e vanno coltivate per non farsele rimangiare. “Il lupo perde il pelo, ma il vizio mai!” I punti del progresso che si celebrano sono continuamente ostacolati dal maschilismo patriarcale. La resistenza più mostruosa è il femminicidio.
Il problema non è riducibile a singoli episodi, ma rappresenta una complessa questione strutturale che attraversa tutti i livelli della società: dall’economia alle istituzioni, dall’educazione alla cultura delle relazioni.
Ci vorrà un cambiamento radicale, non solo repressivo, ma principalmente culturale. L’obiettivo è costruire una società dove la violenza di genere sia culturalmente inaccettabile, dove l’autodeterminazione femminile sia un diritto fondamentale e dove le relazioni siano fondate sul rispetto reciproco.
Occorre un approccio sistemico e multidimensionale per contrastare il femminicidio. La violenza di genere è strettamente legata alla cultura del dominio.
Le società maschiliste continuano a resistere contro la parità economica e professionale, al riconoscimento del lavoro di cura come lavoro produttivo[2], alla condivisione equilibrata delle responsabilità domestiche e familiari.
Persistono significative limitazioni dovute al controllo legislativo sui corpi femminili, ostacoli all’accesso alla contraccezione e all’interruzione volontaria di gravidanza, la negazione del diritto di rifiutare gravidanze e matrimoni forzati, la sessualizzazione e oggettivazione dei corpi femminili, meccanismi impliciti ed espliciti di esclusione dai centri decisionali; rimangono vivaci la persistenza di culture organizzative maschili e competitive (cioè non collaborative) ed il perdurare della cultura del silenzio e della vergogna.
Certo, il contrasto al femminicidio non è solo una questione giudiziaria, ma un profondo cambiamento culturale. Una Prospettiva sistemica. È la cosa più ardua che la Cultura possa fare, perché richiede la decostruzione del paradigma del dominio maschile, il riconoscimento pieno dell’autodeterminazione femminile, la costruzione di modelli relazionali paritari e rispettosi, come promuovere modelli di mascolinità alternativi che non si basino sul dominio e sulla violenza. Per noi e per il Mondo.
E la prospettiva è ancor più ardua oggi che è finito il tempo della gioia; ardua se riflettiamo sul momento storico che stiamo attraversando, dove i valori degli organismi internazionali vengono sminuiti o addirittura ignorati, dove i termini deportazione e rappresaglia sono tornati una realtà per la risoluzione dei conflitti, dove l’Unione Europea, quella del dialogo, delle libertà, dei senza confini, degli Erasmus, della diplomazia, dei 70 anni di costruzione di pace, ha iniziato a riesumare la lingua dei blocchi contrapposti e del riarmo.
[1] Il termine “sororicidio sociale” è un concetto relativamente nuovo e non ancora ampiamente diffuso, ma può essere interpretato come una forma di violenza simbolica o strutturale che colpisce le donne, perpetrata da altre donne, all’interno di un contesto sociale più ampio. Per comprendere meglio, possiamo analizzare i due termini che lo compongono:
– Sororicidio: letteralmente, l’uccisione della propria sorella. In senso figurato, può rappresentare l’annullamento, la svalutazione o la distruzione della solidarietà e del sostegno tra donne.
– Sociale: indica che tale violenza non è un atto isolato, ma è radicata in dinamiche e strutture sociali più ampie, come il patriarcato, il sessismo e la competizione tra donne.
Pertanto, il “sororicidio sociale” può manifestarsi in diversi modi:
– con la rivalità esasperata tra donne, alimentata da stereotipi di genere e dalla scarsità di opportunità, che porta a comportamenti ostili e dannosi.
– Con la svalutazione delle scelte e dei successi di altre donne, spesso basata su pregiudizi e aspettative sociali dominanti.
– Con la emarginazione di donne che non si conformano alle norme sociali o che rappresentano una minaccia per lo status quo.
– Con la interiorizzazione del patriarcato: le donne possono interiorizzare e riprodurre i valori e le dinamiche del patriarcato, perpetuando la discriminazione e la svalutazione di altre donne.
In sintesi, il “sororicidio sociale” descrive un fenomeno complesso in cui le donne, consapevolmente o inconsapevolmente, partecipano a dinamiche di potere che danneggiano altre donne, contribuendo a mantenere le disuguaglianze di genere.
[2] L’espressione “lavoro di cura come lavoro produttivo” rappresenta un concetto fondamentale per riconsiderare il valore e il riconoscimento del lavoro svolto prevalentemente dalle donne, sia in ambito domestico che professionale.
Tradizionalmente, il lavoro di cura, che comprende attività come la cura dei bambini, degli anziani, dei malati e la gestione della casa, è stato svalutato e considerato come un’attività “naturale” delle donne, priva di valore economico. Tuttavia, riconoscere il lavoro di cura come lavoro produttivo significa:
riconoscerne il valore economico, poiché contribuisce in modo significativo al benessere sociale ed economico. Riconoscere il lavoro di cura come produttivo significa mettere in discussione questa divisione e promuovere una maggiore parità di genere.
Superare la divisione di genere, che assegna alle donne il ruolo di “caregiver” e agli uomini il ruolo di “breadwinner”. Cioè tra chi fa assistenza gratis e chi lavora per essere pagato.
Riconoscere il lavoro di cura come produttivo implica la necessità di garantire diritti e tutele per chi lo svolge, come retribuzione adeguata, accesso alla previdenza sociale e riconoscimento delle competenze.
Anche i retrogradi sanno che il lavoro di cura ha un impatto significativo sulla qualità della vita delle persone e sulla coesione sociale.